diretto da Maria Silvia Sacchi

L’Italia, le età della moda e il Wall Street Journal

A che stato è l’industria della moda e del lusso dopo l’inchiesta del giornale americano. Qui a ThePlatform abbiamo qualche pensiero diverso

L’Italia, le età della moda e il Wall Street Journal

Secondo il Wall Street Journal la moda italiana è in seria difficoltà perchè i suoi stilisti più iconici, che hanno dettato lo stile per alcuni decenni, sono ormai troppo vecchi. E, dato che sono al tempo stesso imprenditori, hanno commesso l’errore di non aver fatto massa critica: a causa dell’eccessivo innamoramento di sé e per via di una cultura che è, da una parte, familistica e dall’altra di contrapposizioni campanilistiche. Sarebbero tanto concentrati sul proprio piccolo mondo che, mentre il loro modello di business è sotto l’assedio dei grandi gruppi francesi, secondo il giornale Usa gli italiani non hanno saputo evolversi.

Prima impressione

A una prima lettura del lungo articolo del quotidiano Usa si può quasi essere d’accordo. Ma arrivando in fondo si resta con l’idea che ci sia qualcosa che non va nel ritratto che esce della moda e delle imprese italiane.

Questo, almeno, è quello che io ho ricavato leggendo domenica scorsa l’inchiesta intitolata “Italy Defined Fashion. Then It Got Old”. Data l’importanza del giornale e l’importanza del mercato americano per l’industria della moda-lusso è bene fare un approfondimento.

Quanti anni

Nell’articolo si sottolinea criticamente il comportamento di Giorgio Armani che continua ad affermare di essere il centro della sua azienda pur avendo già 89 anni. Si ricorda che la coppia Bertelli-Prada ha superato i 70 anni. Che Brunello Cucinelli i 70 li ha appena festeggiati in grande e che Diego Della Valle di Tod’s raggiungerà i 70 a fine anno. Pure Domenico Dolce e Stefano Gabbana, per il Wsj, sono in zona pericolo avendo oltrepassato i 60.

Mentre il quotidiano americano pubblicava il suo articolo, sul Financial Times Giorgio Armani ripeteva una volta di più che non venderà mai ai francesi (“Perchè dovrei essere dominato da una di queste mega strutture che mancano di personalità?”). Una decisione che l’imprenditore ha messo anche nero su bianco nelle sue indicazioni agli eredi. Ma su questo specifico punto occorrerà vedere nel concreto cosa accadrà a a suo tempo. È noto l’interesse di molti competitor per Armani, Lvmh in primis. E il gruppo di Arnault può pagare le cifre che vuole. Il denaro però (a volte) può non essere tutto.

Il contesto

Sono vecchi gli stilisti-imprenditori italiani? La risposta immediata è: sì.
Ma… 

Una prima considerazione da fare è che la moda italiana in quanto tale è “più giovane” di quella francese: Hermès è stata fondata nel 1837, Louis Vuitton nel 1854, Chanel nel 1910, Dior nel 1946. La maggioranza dei grandi marchi italiani ha ancora lo stilista-fondatore vivente e in particolare i marchi-icona di cui parla l’articolo. Maison Valentino nasce nel 1960, la Giorgio Armani nel 1975, Versace nel 1978 come la Diesel di Renzo Rosso, Alberta Ferretti 1981. Moncler è nata in Francia ed è del 1952 ma è stata rilevata da Remo Ruffini nel 2003 mentre la società che allora la possedeva era in gravi difficoltà. Più “vecchie” Prada fondata 1913, Gucci nel 1921, Fendi del 1925, Ferragamo nel 1927, Zegna nel 1910. Mentre Gucci oggi è di Kering, Valentino della famiglia reale del Qatar tramite Mayhoola (ma presto diventerà di Kering che a fine luglio ha rilevato il 30% del capitale) e Fendi è parte di Lvmh, Prada, Ferragamo e Zegna fanno ancora capo alle famiglie fondatrici. Prada e Zegna sono altra cosa rispetto a com’erano nate (Prada è partita come negozio in Galleria a Milano, Zegna come lanificio).

Le diverse età di fondazione fanno sì che grandi marchi italiani affrontino oggi un passaggio che i francesi hanno già fatto. Non è la fine di un ciclo ma un pezzo di un percorso naturale, pur se cruciale.

Italiani e stranieri

Attualmente nel mondo i principali gruppi del settore – con posizionamenti di mercato differenti, chi più lusso-lusso, chi più accessibile o premium – sono (in ordine di fatturato 2022, in euro): Lvmh, EssilorLuxottica, Kering, Richemont, Chanel, Estée Lauder, L’Oreal Lux, Ctf (Chow Tai Fook), Hermès, Tapestry+Capri, Pvh, Rolex, Swatch, Ralph Lauren. Cinque francesi, quattro americani, tre svizzeri, un italiano e un cinese.

Lvmh, il primo della lista, ha avuto nel 2022 quasi 80 miliardi di fatturato. Raph Lauren, ultimo tra i primi 14 al mondo, ha fatturato 6,4 miliardi di dollari, ai cambi attuali 6 miliardi di euro.

Tra gli italiani (sempre in ordine di fatturato 2022): Prada con 4,2 miliardi, Calzedonia (la inseriamo per le sue acquisizioni nel lusso, anche se sono parte minore del suo fatturato), Moncler, Armani, Max Mara, Otb, Dolce & Gabbana, Zegna, Ferragamo, Tod’s, Cucinelli. 

A questo drappello va aggiunta Hugo Boss, tedesca di nascita e come quartier generale ma il cui azionista di riferimento è un ramo dell’italiana famiglia Marzotto. Hugo Boss ha dimensioni vicine a quelle di Prada.

Un mercato con un dominus e poi tutti gli altri

Il Wsj sottolinea che Lvmh ha un valore di mercato di 20 volte superiore a quello dei suoi maggiori rivali italiani quotati in Borsa. Un dato a cui vanno aggiunti altri elementi per comprendere fino in fondo la realtà a livello globale nella quale le aziende italiane – come le altre – sono inserite. 

Il fatto è che in questo momento – domani chissà – il settore vede Lvmh da una parte e poi tutti gli altri. 

Bastano pochi numeri.

L’utile netto che il gruppo di Bernard Arnault ha realizzato nel 2022, pari a 14,1 miliardi, è superiore al fatturato che un marchio di eccellenza come Hermès ha realizzato nell’intero anno. E, se ci si sposta negli Stati Uniti, sempre l’utile netto di Lvmh oltrepassa i fatturati del nuovo conglomerato Tapestry-Capri e del gruppo Pvh (Calvin Klein), oltre che essere più che doppio del giro d’affari annuo di Ralph Lauren.

Ancora: gli oltre 20 miliardi di ricavi del solo brand Louis Vuitton sono pari al fatturato annuo sia di Kering che di Richemont, i due maggiori competitor di Lvmh; e sono superiori ai ricavi di un intero anno di Chanel.

Se si guarda al fatturato complessivo del gruppo di Bernard Arnault – 79,2  miliardi nel 2022 – per raggiungerlo bisogna mettere insieme EssilorLuxottica, Richemont, Kering e quasi tutta Chanel.

Questo si rispecchia naturalmente anche nei valori di mercato. Con gli attuali 383 miliardi di capitalizzazione (dati alle ore 9 del 15 settembre) Lvmh vale oltre 6 volte sia Kering che Richemont.

Per questo è assai probabile che la fantasmagorica sfilata di giugno che ha segnato il debutto di Pharrell Williams per Louis Vuitton abbia toccato più François-Henri Pinault di Kering che non un imprenditore italiano. Non fosse altro perchè sono entrambi a Parigi. E in qualche modo le mosse di Kering di questa estate ne sono state una risposta.

Aziende familiari e moda

In Italia, ma anche in Francia, Germania, Spagna e persino negli Stati Uniti, le aziende familiari sono una componente importante dell’economia. Su questo tipo di imprese hanno una forte rilevanza la generazione a cui sono arrivate, le relazioni dentro la famiglia, il contesto culturale e le leggi successorie dei diversi Paesi. Nel caso delle singole industrie, anche l’interesse dei Paesi a sostenerle o meno. L’Italia, per esempio, non si è distinta per supportare la moda nonostante sia una delle componenti più importanti della sua economia.

In tema di successione, nel mondo anglosassone è possibile lasciare tutti i propri averi a chi si vuole, cosa non permessa in molti Paesi, tra i quali l’Italia. Anche se – a dimostrazione dell’impatto delle questioni private sulle aziende – va ricordato che in America il divorzio di Jeff Bezos dalla moglie MacKenzie fu motivo di forte ansia per gli investitori di Amazon, considerato che gli allora coniugi non avevano patti prematrimoniali che definissero gli aspetti economici.

Guelfi e Ghibellini

Due affermazioni dell’inchiesta del Wsj sono vere. La prima è che l’Italia non è riuscita a creare un polo del lusso analogo a quello francesi. Non che non ci abbia mai pensato. Il progetto di Versace di unirsi con Gucci – allora all’avanguardia – fu bloccato dalla tragica e improvvisa morte di Gianni Versace. Tentò poi Prada alla fine del secolo scorso, il momento che segna l’inizio dei poli (Prada, tra l’altro, comprò Fendi insieme a Lvmh), ma probabilmente non era il momento giusto per la maison italiana. 

Quale che sia la ragione, l’obiettivo-poli non è stato raggiunto.

La seconda affermazione corretta, connessa alla precedente, è le dimensioni sono diventate esiziali per competere a livello globale e le imprese italiane sono più piccole, lo abbiamo visto all’inizio. A differenza di alcuni anni fa, con la globalizzazione i loro fondatori ne sono diventati consapevoli e stanno lavorando per crescere. Renzo Rosso, con Otb, sta cercando la crescita anche attraverso acquisizioni.

Il quotidiano Usa trova nella cultura da Guelfi e Ghibellini le cause di questi due punti deboli dell’Italia. Spaziando fuori dall’Italia, però, non si può non ricordare che alcuni anni fa Hermès reagì con una certa “decisione” al tentativo di acquisizione da parte di Lvmh, respingendolo al mittente (e sulla difesa della maison la famiglia Dumas, allora divisa, si ricompattò). E nei tanti rumors che in questi mesi attraversano il mercato non risulta ce ne siano su aggregazioni tra, per esempio, Chanel ed Hermès, o tra Chanel e Kering. A nessuno piace essere comprato, in particolare per chi ha nell’azienda la storia personale. Si cede quando non ci sono eredi; quando il passaggio da una generazione all’altra è difficile; quando i soci litigano; quando non si hanno più le energie per andare avanti; quando si riconosce (e qui bisogna essere davvero bravi) che solo con una vendita si danno maggiori prospettive all’azienda; quando ci sono problemi fisici o comunque personali che portano a cambiare vita. Vendere, anche di fronte a tanto denaro, è psicologicamente faticoso, e lo è in particolare per i fondatori, mentre è una scelta più facile per generazioni meno coinvolte emotivamente. 

Passare la mano ai figli

Rimanendo in Francia, Kering, Hermès, Chanel e soprattutto Lvmh sono aziende familiari. Dico soprattutto Lvmh perchè gli Arnault sottolineano loro stessi questa caratteristica. E perché essendo il gruppo della cui potenza si è detto, ciò che riusciranno a fare in termini di passaggio generazionale interessa tutto il mondo della moda. 

Wall Street Journal sottolinea come sia rischioso passare un marchio alla generazione successiva perchè – dice – possono nascere litigi che pesano sull’impresa. Questo è assolutamente vero ed è il motivo per cui tutti gli esperti di aziende familiari si concentrano sul passaggio generazionale. La casistica di quanto male può fare in un’azienda una successione sbagliata è sterminata. Da anni nelle famiglie imprenditoriali del mondo si riflette su come affrontare bene questo snodo.

Cosa fanno in Francia

Bernard Arnault, 74 anni, e il direttore generale Antonio (detto Toni) Belloni, 69 anni, sono impegnati da tempo non solo a far crescere il gruppo ma anche a programmare il ricambio familiare e manageriale. 
Arnault ha cinque figli, due (Delphine e Antoine) dal primo matrimonio con Anne Dewavrin, e tre (Alexandre, Frédéric e Jean) dalla moglie Hélène Mercier.

Arnault, pur mantenendo a sè la gestione del gruppo, ha diviso in parti uguali le quote dell’accomandita di controllo tra i cinque figli e ha inserito tutti loro nelle aziende del gruppo. Non diversamente da quanto avviene nelle aziende familiari di altri Paesi, tra i quali l’Italia. 

E in Italia? 

Patrizio Bertelli e Miuccia Prada hanno deciso che il nuovo ceo sarà il figlio Lorenzo ma hanno interposto per alcuni anni la figura del manager Andrea Guerra (ex ceo Luxottica ed ex presidente esecutivo Eataly cui è seguito un breve trascorso in Lvmh) chiamato anche a realizzare il dual listing di Prada a Milano dopo Hong Kong. Sul fronte dello stile, Miuccia Prada già tre anni fa ha deciso di condividere la direzione artistica con Raf Simons, 55 anni, e ci sarà ulteriore ringiovanimento con l’uscita di Fabio Zambernardi, storico braccio destro della designer. 

Sono in azienda i figli di Gildo Zegna, ed è per merito loro che il gruppo piemontese ha comprato Thom Browne, marchio americano che sta diventando sempre più forte e il cui designer è oggi presidente della Camera della moda Usa. Negli Usa Zegna ha comprato anche la parte fashion di Tom Ford e si è quotato a Wall Street. Anche Renzo Rosso ha al suo fianco, oltre all’amministratore delegato di gruppo Ubaldo Minelli, i due figli maggiori. E allo stile di Diesel, il suo marchio principale nonché da cui è nato, ha chiamato un talento (e di 40 anni) come Glenn Martens.

In casa di Remo Ruffini la scelta iniziale è stata di partire da percorsi esterni: Pietro, il figlio maggiore, ha fondato Archive, società che è entrata in un brand emergente come The Attico e nella ristorazione di alta gamma di Langosteria. Il secondogenito Romeo, dopo aver lavorato con il fratello, è ora sul marchio del gruppo Stone Island. Quanto a Ruffini senior ha scelto Pharrell Williams per il progetto Genius prima che il produttore-musicista diventasse direttore creativo di Louis Vuitton.

Mettersi alla prova

Va detto che è sempre più tradizione per i figli delle famiglie imprenditoriali (non solo della moda) “mettersi alla prova” da soli. Lo hanno fatto anche Stefano Rosso, figlio di Renzo. investendo per esempio nel gaming; Edoardo Zegna entrato nel gruppo di famiglia solo dopo aver gestito una start up americana di abbigliamento online. In Cucinelli, Brunello Cucinelli è ancora il frontman ma la gestione è nelle mani degli amministratori delegati Luca Lisandroni e Riccardo Stefanelli, quest’ultimo parte della famiglia in quanto marito di Camilla Cucinelli, figlia di Brunello.

E ancora: gli stilisti-imprenditori italiani da anni e anni ospitano e spingono nuovi talenti offrendo loro gli spazi per esporre. È il caso, per citarne due, di Giorgio Armani e di Dolce & Gabbana. Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono anche stati i primi in Italia a creare una divisione beauty per conto proprio. Se poi si guarda al cosiddetto “monte” della filiera – attualmente principale interesse della moda, considerato che le maison del mondo producono quasi tutto in Italia – i cambiamenti sono evidenti, con la formazione di poli produttivi dove i singoli imprenditori hanno ceduto l’azienda reinvestendo nella holding di controllo.

Insomma, pur con tutti i difetti che hanno (e ne hanno), e con un sistema-Paese che non favorisce come è invece successo in Francia, proprio fermi gli italiani non sono. A maggior ragione dopo la pandemia. Se è vero che un tempo si guardavano in cagnesco, oggi il dialogo tra gli imprenditori del lusso italiano è costante e profondo, anche se non sempre visibile ai più. Ed è ulteriormente spinto e rafforzato dai giovani e dalle giovani di famiglia che si conoscono e si parlano a tutte le latitudini. Significa che non ci saranno più cessioni a stranieri? No, su questo i rumors di mercato sono molti. Ma potrebbero esserci anche sorprese diverse. 

E in conclusione, cosa dicono le analisi

È indubbio che l’età di molti degli stilisti e capo azienda della moda sia alta. Solo italiane? No. Sull’Italia aggiungiamo Renzo Rosso, 67 anni, Remo Ruffini 62, Gildo Zegna 67. Di Arnault, 74 anni, si è detto. Francois-Henri Pinault che guida Kering ha 61 anni, Axel Dumas, ceo di Hermes, ne ha 53 (appartiene alla 6a generazione dei fondatori, e ha sostituito Patrick Thomas, l’unico manager esterno che la società abbia avuto dalla sua nascita), Alain Wertheimer presidente e azionista di Chanel ne 74, Johann Peter Rupert di Richemont 73, Nick Hayek di Swatch 68.

In America Estee Lauder è da tempo guidata dal manager Fabrizio Freda presidente e ceo 66 anni, mentre la francese L’Oreal vede il presidente Jean-Paul Agon con 67 anni e il ceo Nicolas Hieronimus di 59 anni.

Sempre negli Usa in Tapestry Anne Gates, presidente, 62, Joanne Crevoiserat (ceo) 58 anni; John Idol, presidente e amministratore delegato di Capri holding, 62. Quanto a Ralph Lauren, stilista-imprenditore, di anni ne ha 84.

Le età avanzate non mancano in nessuna parte del mondo. Ma le ricerche degli esperti di aziende familiari dicono che se è vero che una classe imprenditoriale anziana è più conservativa e frena lo sviluppo, questo non vale per i fondatori.

Leonardo Del Vecchio, con Luxottica, ha comprato Rayban quando aveva 64 anni, Oakley quando ne aveva 72, ha fuso Luxottica con Essilor a 83 anni e ha rilevato Gran Vision a 86. Al proprio fianco, Del Vecchio come gli altri imprenditori di ogni settore, ha sempre avuto manager importanti, perchè è impensabile ritenere che società da miliardi di euro possano essere governate da una persona sola. Anche se questa persona a quasi 90 anni mantiene la voglia, come Giorgio Armani, di mettere a posto le vetrine. Gli sarà pure concesso. L’azienda l’ha creata lui.

(Nella foto, Giorgio Armani mentre sistema una vetrina in una immagine condivisa molto sui social)

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Maria Silvia Sacchi
Giornalista professionista. Ha lavorato per le principali testate italiane. Prima di fondare ThePlatform è stata per 23 anni al Corriere della Sera, il più importante giornale italiano, per il quale ha seguito l’industria della moda e del lusso e le evoluzioni delle grandi famiglie imprenditoriali. In Rcs Mediagroup ha impostato e diretto il master in Management della Moda e del Lusso e gli Online Fashion Talks di Rcs Academy.

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