diretto da Maria Silvia Sacchi

IL COMMENTO

Armani era Armani, ma il suo doppio testamento (segreto) forse non è da imitare

Una scelta complessa che presenta troppe criticità. Con il rischio di contrapposizioni tra gli eredi e di stallo delle operazioni straordinarie

Armani era Armani, ma il suo doppio testamento (segreto) forse non è da imitare

Affidare la successione di un patrimonio così rilevante come quello di Giorgio Armani a un testamento, per quanto dettagliato e complesso, non è una soluzione scevra di rischi. Demandare a un atto unilaterale e postumo la governance e le strategie future di una realtà come Giorgio Armani S.p.A. espone inevitabilmente a instabilità e incertezze. Dalla lettura del testamento si evince una forte impronta paternalistica: Armani ha sempre mantenuto un controllo assoluto sul suo gruppo, evitando l’ingresso di terzi, e ora detta regole stringenti sul futuro del gruppo anche dopo la sua scomparsa. Francamente, non mi pare un esempio di pianificazione successoria esemplare.

È evidente che nelle intenzioni del testatore la Fondazione Giorgio Armani e Pantaleo Dell’Orco dovranno guidare il business, detenendo il 70% dei diritti di voto. Tuttavia, la scelta di regolare tutto tramite due testamenti segreti lascia spazio a molte incognite. Dalle informazioni ad oggi disponibili (il nuovo statuto non è ancora reperibile presso il Registro delle Imprese), sappiamo che le azioni saranno suddivise in sei categorie, dalla A alla F, ciascuna con diritti di voto e patrimoniali differenti.

Secondo il testamento relativo alla società, la Fondazione riceve il 9,9% delle azioni in piena proprietà e il 90% in nuda proprietà, mentre cinque persone fisiche ottengono l’usufrutto sulle diverse categorie di azioni. La Fondazione, pertanto, sarà l’unico socio, ma i diritti di voto e i benefici economici sono distribuiti in modo molto articolato.

Il rischio dell’usufrutto

Il primo rischio, spesso sottovalutato, riguarda proprio il rapporto tra usufruttuario e nudo proprietario di partecipazioni sociali. Invero, l’usufrutto è un diritto reale, temporaneo e limitato, che conferisce all’usufruttuario il diritto di godere del bene nel rispetto della sua destinazione economica. Il diritto di usufrutto ha tipicamente ad oggetto beni immobili, dunque la sua applicazione alle partecipazioni societarie, se non regolata in modo dettagliato, può generare conflitti, soprattutto con riferimento all’esercizio del diritto di voto. Se, ad esempio, gli usufruttuari, utilizzando il proprio diritto di voto assembleare, decidessero di approvare una distribuzione di dividendi ritenuta dalla Fondazione Armani eccessiva o imprudente, si potrebbe configurare un grave contrasto tra le due parti. In tale ipotesi, la Fondazione, in qualità di nudo proprietario e custode del patrimonio societario, potrebbe contestare agli usufruttuari un abuso del diritto di usufrutto, sostenendo che la deliberazione assembleare costituisca un atto di depauperamento del valore della società.

Le criticità aumentano quando si pensa a operazioni straordinarie come fusioni, scissioni o cessioni di quote, poiché, pur spettando all’usufruttuario il dovere di esercitare i propri diritti nel rispetto dell’interesse del nudo proprietario alla conservazione della sostanza e del valore della quota, in tali occasioni le rispettive posizioni possono assumere connotazioni antitetiche e confliggenti. Per questo, nella prassi più evoluta, si tende a disciplinare in modo molto preciso i rapporti tra questi due portatori di diritti diversi, evitando di affidarsi solo alle regole generali del codice civile, che sono troppo generiche e comunque pensate per i beni immobili e non per le partecipazioni societarie.

Un altro aspetto interessante è la previsione di un legato a favore degli usufruttuari, a carico della Fondazione, per le somme ricavate dalla cessione iniziale del 15% e poi di un ulteriore 30-54,9% del capitale (cessioni della prima e seconda tranche delle azioni). In pratica, la famiglia monetizza grazie ad una “liquidation preference” decisa dal testatore e trasmissibile esclusivamente mortis causa.

Le modifiche statutarie

Il testamento impone inoltre oneri di modifica statutaria solo a carico di alcuni eredi, ma ciò lascia irrisolta la questione di quale effetto abbiano eventuali dissensi da parte degli altri usufruttuari o del nudo proprietario. Questa lacuna può tradursi in un concreto rischio di contenziosi, aggravato dal fatto che lo statuto potrebbe prevedere maggioranze qualificate elevate, superiori al 70% (nel testamento si parla di maggioranza qualificata al 75%), rendendo complessa l’approvazione delle modifiche necessarie e aprendo la strada a situazioni di stallo e conflitto tra le parti coinvolte.

Nell’ambito delle cessioni della prima e seconda tranche delle azioni, la previsione dell’obbligo di raggiungere un accordo preventivo tra Pantaleo Dell’Orco (e in sua assenza, di Andrea e Silvana) e la Fondazione per la vendita delle azioni rischia di rallentare ogni operazione di disinvestimento.

Inoltre, la volontà di cedere tali azioni a specifici gruppi industriali (e non altri) in tempistiche predefinite aggiunge ulteriore complessità. Le operazioni di questo tipo richiedono un enorme lavoro documentale e sono soggette a notifiche e autorizzazioni antitrust. Pertanto, ritengo che, con rispetto alla potenziale cessione di parte della società a terzi, certamente l’inserimento di clausole testamentarie–societarie (sembra un preliminare di una operazione M&A), potrebbe significativamente complicare l’operazione di compravendita.

Partner, Head of the Italian Practice and European Regional Leader Corporate, Studio Legale Withers

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