Lo studio Just Fashion Transition
Analisi Ambrosetti, quale percorso per la sostenibilità?
Accordi di filiera, coinvolgimento del consumatore, norme chiare e omogenee: la moda e il lusso devono partire da questi pilastri per la loro transizione sostenibile
Ogni anno i consumatori europei scartano 5,2 milioni di tonnellate di prodotti tessili, che se considerati in base alla popolazione fanno 35 capi gettati per ogni cittadino europeo. Di questi, solo 3 vengono riciclati e uno inserito nel processo del second hand. Tutti gli altri finiscono attualmente in discarica, ma fra poco più di un anno dovranno confluire in un percorso di raccolta differenziata. Di contro, solo l’1% dell’abbigliamento prodotto in Europa viene dal circuito del riciclo. E mentre il 58% dei consumatori dichiara di ritenere importante fare la propria parte sul tema della sostenibilità, il 30% dei capi comprati online viene rimandato indietro, di fatto destinandolo alla discarica. Realizzare un capo sostenibile costa, in media, due volte un capo tradizionale. Ma può far aumentare i ricavi fino a 4 volte (se si trova un consumatore disponibile all’acquisto…) mentre la disponibilità di spesa delle famiglie sta calando per effetto dell’inflazione. Le aziende, da parte loro, saranno chiamate a breve dall’Europa ad assumersi tutta la responsabilità dei loro prodotti, compresa la raccolta dei rifiuti e l’eventuale riciclaggio.
Just Fashion Transition
Bastano questi pochi elementi per capire come il mondo della moda e del tessile stiano vivendo un momento estremamente delicato, una transizione inevitabile in un contesto che però ancora non fornisce indicazioni (sia normative, che tecniche, che di risposta dei consumatori) sufficientemente chiare e condivise per delineare una strategia efficace. Una situazione cui ha cercato di rispondere Just Fashion Transition 2023, lo studio realizzato da The European House Ambrosetti, presentato ieri a Venezia. Alla sua seconda edizione, il report ha analizzato i bilanci di più di 2800 aziende per comprenderne le marginalità, ha studiato le 100 maggiori realtà europee del settore per capire le loro strategie, ma soprattutto i risultati ottenuti in termini di sostenibilità, oltre a prendere in considerazione i 30 maggiori retailer livello globale, per avere anche un’idea del comportamento dei consumatori.
Fra luci e ombre
I risultati sono un insieme di luci e ombre, che però nel complesso indicano come il settore del fashion si sia mosso in grande ritardo e abbia bisogno di una veloce accelerazione nel percorso verso la sostenibilità. Le 100 aziende più grandi in un anno hanno migliorato del 17% il loro controllo sui temi della sostenibilità e quelle italiane della supply chain in media del 16% (con un’attenzione maggiore alla sostenibilità sociale che a quella ambientale). L’innovazione tecnologica ha permesso, grazie al rinnovamento dei macchinari, di ridurre fino all’80% le emissioni di CO2 in 5 anni e nello stesso tempo stanno crescendo le aziende che certificano le loro emissioni, e sono raddoppiate in un anno quelle che hanno stabilito obiettivi di sostenibilità. Ma a 10 anni dalla tragedia di Rana Plaza le condizioni dei lavoratori della filiera hanno subito un arretramento e solo il 2% di loro ha accesso a salari minimi concordati; la mancanza di benchmark e di dati confrontabili rende difficile misurare con efficacia politiche e risultati e l’ancora scarsa trasparenza favorisce le pratiche di greenwashing. La difficoltà che i consumatori incontrano nel conoscere e valutare la sostenibilità dei prodotti che acquistano aiuta le politiche fatte di annunci e non di fatti concreti e misurabili.
L’incertezza normativa
E il contesto normativo non è da meno: basti pensare che solo sul 51% delle 24 misure che dovrebbero costituire la Ue Textile Strategy annunciata a marzo 2022 (basata sui concetti di durabilità, riparabilità, riciclo e riuso dei prodotti tessili) c’è un accordo fra Parlamento, Commissione e Consiglio europeo, i tre organismi che dovrebbero legiferare. Sul 28% non c’è accordo, sul 22% c’è un accordo ma l’approvazione è stata rimandata. Una situazione che crea un’evidente situazione di instabilità e incertezza per le aziende, che dovrebbero programmare investimenti senza conoscere il contesto normativo in cui operare. O peggio, trovandosi i cambiamenti in corso d’opera, come è avvenuto sugli imballaggi, con il cambiamento repentino tra riciclo e riuso.
E ancora: la politica europea ha scelto di concentrarsi soprattutto sul tema della durabilità dei prodotti tessili, che però non è il driver che determina le scelte dei consumatori, come conferma il continuo successo del fast fashion. Il giro d’affari di questo settore è raddoppiato fra il 2000 e il 2014, nel 2022 ha sfiorato i 106 miliardi di dollari (+17% sull’anno precedente) e le previsioni lo danno sopra i 150 miliardi nel 2027.
Che cosa è sostenibile?
Il cotone organico è più sostenibile del poliestere riciclato? Per quanto la percezione dei consumatori sembri andare in quella direzione, le evidenze dicono che non è così. O meglio: il livello di sostenibilità cambia a seconda dell’impatto considerato. Il cotone ha un basso impatto sul cambiamento climatico ma molto alto se si considera il consumo di suolo, l’uso di acqua e l’eutrofizzazione. Il nylon ha una bassa tossicità ma impatta molto sul clima; poliestere e elastane sembrano al momento quelli con un impatto medio meno elevato. Ma la conclusione è che non esiste una fibra migliore delle altre e gli interventi per migliorare gli impatti sono molto diversi a seconda delle filiere di riferimento.
Qual è la direzione giusta?
I risultati dello studio e i confronti in corso al Venice Sustainable Fashion Forum fanno emergere un panorama complesso, con alcuni punti fermi. La transizione verso una moda sostenibile e circolare è ineludibile e non più rinviabile e le modalità per arrivarci non sono univoche ma dipendono molto dalle scelte produttive e dalle filiere di riferimento. Qualsiasi processo verso la sostenibilità non può prescindere dalla misurazione e dalla disponibilità dei dati. Il consumatore ha un ruolo fondamentale in questo processo, perché in questo momento le sue affermazioni di principio non coincidono con i comportamenti di acquisto. Serve un quadro normativo chiaro e omogeneo, che non penalizzi i produttori europei consentendo l’accesso entro i confini dell’Europa a prodotti che non sono tenuti a rispettare gli stessi standard produttivi e che quindi possono essere proposti a prezzi più bassi. Serve un confronto e una collaborazione all’interno delle varie filiere, perché l’innovazione ha costi molto alti e può essere sostenuta dai fornitori solo all’interno di un accordo di collaborazione con l’utilizzatore finale, tipicamente i grandi brand. Allo stesso tempo il sistema ha bisogno di aiuti per innovare, sulla scorta di quanto fatto con il piano Industry 4.0 per l’innovazione.
8 proposte per una transizione sostenibile
Alla luce dell’analisi della situazione e delle sfide future, The European House Ambrosetti ha elaborato otto proposte, per permettere anche e soprattutto di passare dalle affermazioni di principio ai fatti concreti. Queste le proposte:
1) anticipare la transizione del mercato, mantenendo le strategie sempre in linea con l’evoluzione delle politiche europee e globali anche attraverso linee guida e tool kits.
2) Costruire task force multi-stakeholder per definire priorità nazionali, indirizzare i finanziamenti pubblici, raccogliere esperienze da portare all’attenzione dei decisori europei.
3) Costruire alleanze in grado di catalizzare il cambiamento
4) Misurare l’impatto delle policy creando osservatori, individuando indicatori, concordando metodologie di calcolo.
5) promuovere un cambiamento culturale condiviso su questi temi.
6) Creare, all’interno del Quirinale Pact, un tavolo congiunto fra i leader dell’industria italiana e francese che faccia diventare il lusso non solo un simbolo di qualità ma anche il settore che guida la transizione, assumendo un ruolo chiave nel confronto con l’Europa e le istituzioni internazionali.
7) favorire lo sviluppo di tecnologie e innovazioni che facciano diventare profittevole la scelta di investire in sostenibilità.
8) promuovere un approccio integrato fra riciclo e riuso con tutti gli operatori della filiera, anche quelli impegnati nella raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Nella foto l’intervento di Sergio Tamborini, presidente di SMI, al forum di Venezia