diretto da Maria Silvia Sacchi

L’opinione

Phoebe Philo, un esercizio di stile o un fashion business?

Il modello di business del brand Phoebe Philo è disegnato in modo preciso, con collezioni destinate ad happy few e un target customer ben delineato nella mente della creatrice. Ma forse manca la connessione con il cliente che, nel frattempo, è cambiato

Phoebe Philo, un esercizio di stile o un fashion business?

(English version below)

Il 30 ottobre, dopo una estenuante attesa specialmente per i nostalgici dell’ ex direttrice creativa di Celine (che aveva lasciato il brand nel 2017), è arrivata la fatidica email annunciando l’apertura del negozio online che vende in esclusiva le collezioni dell’omonimo brand lanciato da Phoebe Philo.

Erano trascorsi ormai mesi da quando era stato annunciato questo nuovo capitolo della vita professionale della designer inglese che aveva creato uno stile iconico per Chloé prima e per Céline poi, raccogliendo un seguito di fedelissimi che quasi poteva essere paragonato ad un culto.

Il divorzio da Céline aveva lasciato gli aficionados orfani di una direttrice creativa che aveva sviluppato uno stile contemporaneo ed inusuale, ricco di contrasti e di silhouettes inattese.

Nonostante però il ritiro a vita privata, Philo aveva iniziato a coltivare l’idea di creare un brand che rappresentasse la sua visione della moda senza filtri ed intermediazioni.

Nel frattempo il brand Celine (questa volta senza l’accento, per volontà del nuovo direttore creativo, Hedi Slimane) aveva intrapreso una nuova strada, meno intellettuale e concettuale, e più pragmatica e realistica, con dei codici di brand e prodotti iconici, inseriti in un potente immaginario di marca, che hanno favorito una crescita costante ed inarrestabile della sua visibilità e del suo fatturato.

Nella moda la fedeltà da parte dei clienti, tranne in rari casi, è un controsenso, in quanto questa industria richiede a se stessa e ai suoi protagonisti di rigenerarsi costantemente, di essere in costante evoluzione ma mantenendo ben salde le radici a terra ed i suoi clienti sono sempre alla ricerca di novità e di prodotti e universi particolari, che trasudano lo spirito del momento insieme alla personalità del creatore.

Modelli

Il modello di business del brand Phoebe Philo è disegnato in modo preciso, con collezioni destinate ad happy few e un target customer ben delineato nella mente della creatrice:

– Esclusività nella distribuzione essendo presente solo sul canale retail del brand;

– Direct to consumer, senza intermediari nella distribuzione;

– Posizionamento di prezzo molto elevato;

– Stile molto concettuale e crudo con molti dettagli ripresi dalle precedenti collezioni di Céline;

– Comunicazione forte ed ambigua allo stesso tempo, che gioca con immagini di persone quasi scarnificate;

– See now, buy now.

L’approccio di marketing ricorda molto quello di Supreme degli anni d’oro: per acquistare i prodotti ci si deve iscrivere ad una newsletter che ci comunica quando il negozio è aperto.

Con Supreme era diventato una caccia al tesoro, dove i prodotti finivano inesorabilmente sold out in un’ora o poco più. Poi sappiamo tutti quanto questo fenomeno temporaneo sia evaporato in pochi anni.

Prima collezione

Per la prima collezione Phoebe Philo c’è stata molta attesa ma non il prospettato sold out di tutta la collezione, nonostante si parli di volumi di offerta molto ridotti. E già questo è un punto sorprendente visto il plauso ricevuto da un certo tipo di target customer sui social media e la presunta scarsità del prodotto.

L’effetto Supreme che doveva scatenarsi grazie all’effetto sorpresa non c’è stato e dopo un giorno molti prodotti, inclusi gli occhiali da sole sono rimasti invenduti.

Per un modello di business legato alla fama di una designer di culto “see now, buy now” certamento il risvolto non auspicabile.

Mentre lo stile di prodotto rispecchia molto il gusto Phoebe Philo per Celine, quasi estremizzandolo nelle silhouette e nelle forme per l’abbigliamento e le calzature, le borse rimangono meno iconiche, molto minimali e poco distintive e vendute a prezzi molto elevati, più alti del prezzo di borse iconiche di marchi ricercati come Loewe, Dior e Prada.

La ricercatezza che è stata applicata allo sviluppo del prodotto e alla comunicazione non la si ritrova certamente nell’approccio di merchandising e di pricing, nella definizione di un target customer realistico e soprattutto nella creazione di un universo all’interno del quale il cliente possa fare una full immersion emozionale ed esperienziale, elemento ormai immancabile nei brand di successo attuali.

Un contesto diverso

Sembra quasi che Philo abbia ripreso dove ha lasciato, senza essersi resa conto che nel frattempo il mondo ed i mercati, sono profondamente cambiati negli ultimi 4 anni, che le esigenze dei clienti devono incastrarsi con la loro disponibilità economica, erosa dall’inflazione e dall’incertezza dello scenario politico e sociale.

La sua visione della cliente si è fatta più dura, scarna, ostinata nell’immaginare una voglia di acquistare prodotti in fondo anonimi e già presenti talvolta in collezioni di giovani brand come Khaité.

Ecco questa prima collezione di Phoebe Philo sembra risentire di una mancanza di visione di brand (l’esercizio più difficile da fare per un fondatore, proiettarsi dentro un universo ben delineato ed incontrovertibile).

Philo ha peccato forse di eccesso di visione di sé e di prodotto senza stabilire una vera e profonda connessione con i potenziali clienti, senza intraprendere una conversazione con loro, senza ascoltarli con attenzione.

Forse si è fatta irretire dalle sirene dei nostalgici, dall’eco del passato e non ha valutato attentamente l’impatto di una collezione altamente speciale ma altrettanto costosa, in un panorama fatto ormai di marchi di alto livello che presidiano il mercato, dalla nicchia altissima di The Row, alla community artistico-intellettuale che si riunisce intorno al J.W. Anderson di Loewe, fino agli eterni Hermès e Chanel e che presentano una brand equity ben più consolidata.

Forse ha perso di vista il fatto che in questi sei anni la sua cliente ideale si è evoluta, è cambiata, preferisce altro e che la sua community nel frattempo si è sfilacciata e ristretta.

Certamente Philo ha creato un interessante esercizio di stile in cui però quello che manca è proprio il codice distintivo del brand, un segno, un simbolo che possano far pensare ad un seme che farà una pianta forte e robusta, radicata nel terreno ed immune a qualsiasi tempesta.

In questo momento l’offerta e la proposta di Philo sembra più una bellissima composizione di fiori, destinata però ad appassire nel tempo perché creatura aleatoria, volatile, in cui l’intenzione di essere forti e potenti c’è ma a cui manca una forza di attrazione vigorosa che si faccia spazio in un’arena molto competitiva ed affollata con elementi distintivi in cui valga la pena di investire.

Essere fondatori

Certamente il passaggio da direttore creativo alle dipendenze di un brand, con a disposizione professionisti ed eccellenze dei vari settori ed importanti investimenti, a fondatrice di un brand è drastico e talvolta con risvolti inattesi da gestire; dall’ altra parte però ormai è chiaro quanto una visione puramente creativa non sia più sufficiente a far durare un brand nel tempo e che questa richieda una controparte di strategia di marca ed esecuzione di business che inevitabilmente richiede compromessi ed agilità, ma soprattutto un costante ascolto dei mercati e dei clienti e un’offerta non solo di prodotto ma anche di universo esperienziale che al momento latita.

Si dice che i primi venti secondi nell’avvicinare un brand siano fondamentali per attrarre il cliente, questo primo passo, riflettuto così a lungo, è ancora incerto ed insicuro.

Chissà se il brand Phoebe Philo rimarrà un’esercizio di stile oppure si trasformerà in un business di successo e scalabile?

(English version)

Phoebe Philo, a style exercise or a fashion business?

On October 30, after an exhausting wait especially for those nostalgic for the former creative director of Celine (who left the brand in 2017), the fateful email arrived announcing the opening of the online store which exclusively sells the collections of the namesake brand launched by Phoebe Philo.

Months had now passed since this new chapter in the professional life of the English designer was announced. Philo, who had created an iconic style first for Chloé and then for Céline, gathering a loyal following that could almost be compared to a cult, finally started a new venture.
The divorce from Céline had left aficionados orphaned of a creative director who had developed a contemporary and unusual style, full of contrasts and unexpected silhouettes.
However, despite retiring to private life in 2017, Philo had since begun to cultivate the idea of ​​creating a brand that represented his vision of fashion without filters and intermediaries.

In the meantime, the Celine brand (this time without the accent, by decision of the new creative director, Hedi Slimane) had undertaken a new path, less intellectual and conceptual, and more pragmatic and realistic, with brand codes and iconic products, inserted in a powerful brand image, which have favored constant and unstoppable growth in its visibility and turnover.

In fashion, customer loyalty, except in rare cases, is a contradiction, as this industry requires itself and its protagonists to constantly regenerate, to be in constant evolution but keeping its roots firmly on the ground and its customers are always looking for novelties and particular products and universes, which exude the spirit of the moment together with the personality of the creator.

The business model of the Phoebe Philo brand is precisely designed, with collections intended for the happy few and a target customer well defined in the creator’s mind:
– Exclusivity in distribution being present only on the brand’s retail channel;
– Direct to consumer, without intermediaries in distribution;
– Very high price positioning;
– Very conceptual and raw style with many details taken from previous Céline collections;
– Strong and ambiguous communication at the same time, which plays with images of almost stripped-down people;
– See now, buy now.

The marketing approach is very reminiscent of that of Supreme in its golden years: to purchase the products you have to sign up for a newsletter that tells you when the store is open.
With Supreme it had become a treasure hunt, where the products inexorably sold out in an hour or so. Then we all know how much this temporary phenomenon evaporated in a few years.

There was a lot of anticipation for the first Phoebe Philo collection but the expected sold out of the entire collection did not happen, despite talk of very small supply volumes. And this is already a surprising point given the acclaim received from a certain type of target customer on social media and the presumed scarcity of the product.

The Supreme effect that was supposed to be unleashed thanks to the surprise reaction did not occur and after a day many products, including sunglasses, remained unsold.

For a business model linked to the fame of a cult designer and the “see now, buy now” approach is certainly an undesirable outcome.

While the product style very much reflects Phoebe Philo’s taste for Celine, almost taking it to the extreme in the silhouettes and shapes for clothing and footwear, the bags remain less iconic, very minimal and not very distinctive and sold at very high prices, higher than the tag price of iconic bags from sought-after brands such as Loewe, Dior and Prada.

The refinement that has been applied to product development and communication is certainly not found in the merchandising and pricing approach, in the definition of a realistic target customer and above all in the creation of a universe within which the customer can do a full emotional and experiential immersion, an element that is now inevitable in today’s successful brands.

It almost seems that Philo has picked up where she left off, without realizing that in the meantime the world and the markets have changed profoundly in the last 4 years, that the needs of customers must fit into their purchasing power, eroded by inflation and uncertainty of the political and social scenario.
Her vision of the customer has become harder, more sparse, obstinate in imagining a desire to purchase products that are ultimately anonymous and sometimes already present in the collections of young brands like Khaité.

Here we are, this first collection by Phoebe Philo seems to suffer from a lack of brand vision (the most difficult exercise for a founder to do, projecting oneself into a well-defined and incontrovertible universe).
Philo perhaps was faulty by excessive vision of herself and of the product without establishing a true and profound connection with potential customers, without engaging in a conversation with them, without listening to them carefully.

Perhaps she was ensnared by the sirens of the nostalgic, by the echo of the past and did not carefully evaluate the impact of a highly special but equally expensive collection, in a panorama now made up of high-level brands that preside over the market, from a very high-end niche of The Row, to the artistic-intellectual community that gathers around J.W. Anderson of Loewe, up to the eternal Hermès and Chanel and which have a much more consolidated brand equity.

Perhaps she has lost sight of the fact that in these six years her ideal customer has evolved, changed, prefers something else and that in the meantime her community has frayed and shrunk.
Philo has certainly created an interesting exercise in style in which, however, what is missing is precisely the distinctive code of the brand, a sign, a symbol that can make one think of a seed that will make a strong and robust plant, rooted in the ground and immune to any storm.

Today Philo’s offer and proposal seems more like a beautiful composition of flowers, destined however to wither over time because it is a random, volatile creature, in which the intention to be strong and powerful is there but which lacks strength of vigorous attraction that makes space in a very competitive and crowded arena with distinctive elements in which it is worth investing.

Certainly the transition from creative director employed by a brand, with professionals and excellences from various sectors and important investments available, to founder of a brand is drastic and sometimes has unexpected implications to manage; on the other hand, however, it is now clear that a purely creative vision is no longer sufficient to make a brand last over time and that this requires a counterpart of brand strategy and business execution which inevitably asks for compromises and agility, but above all constant listening of markets and customers and an offer not only of product but also of experiential universe which is currently lacking.

It is said that the first twenty seconds in approaching a brand are fundamental for attracting the customer, this first step, thought about for so long, is still uncertain and insecure.

Who knows if the Phoebe Philo brand will remain an exercise in style or turn into a successful and scalable business?

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