L'intervista
Alfonso Dolce: “La Dolce&Gabbana pronta a nuovi investimenti in calzature, pelletteria e soprattutto profumi”
Il ceo del gruppo: “Abbiamo sempre privilegiato l’industria, nel medio periodo nascerà una Dolce&Gabbana Beauty Industry”. Sulla giornata del made in Italy: “Facciamo vedere quali straordinarie abilità hanno i nostri collaboratori, non facciamoci portare via anche il racconto del saper fare”. Intanto il bilancio al 31 marzo 2023 si è chiuso con un fatturato a 1,6 miliardi, +27,%%
Se si mettono in fila anche solo gli annunci di questa prima parte dell’anno – dall’ultimo, la boutique Fine Jewelry, al sostegno ai giovani talenti del design dopo quelli della moda, fino all’ingresso del gruppo in Altagamma che segue quello in Camera della Moda e in Iccf (Italy China Council Foundation) si vede il filo che li collega ed è la spinta al rinnovamento.
“Siamo un grande cantiere”, dice Alfonso Dolce, l’amministratore delegato del gruppo Dolce&Gabbana. Un cantiere che si è aperto tre anni fa, quando improvvisamente il Paese – e il mondo – si bloccarono per la pandemia. “Sembra ieri, ma sono passati tre anni… È stato durante i primi mesi di stop che abbiamo preso decisioni che erano… non dico dormienti… ma che rimandavamo sempre. Dicevamo: “Lo facciamo, ma aspettiamo”. La pandemia è stato un periodo durissimo per il mondo e che ci ha spinto, come azienda, a guardarci dentro e a rivedere la nostra organizzazione”.
A rimanere anche meno chiusi nella propria bolla. Come hanno fatto molti imprenditori che hanno rivalutato, o hanno compreso per la prima volta, l’importanza di dialogare e aprirsi. Intanto, l’esercizio al 31 marzo 2023 si è chiuso a 1,6 miliardi di euro con una crescita complessiva del 27,5% (24% a cambi costanti) rispetto all’esercizio precedente.
Anche il rapporto della moda con la politica sembra cambiato. Il governo ha appena approvato il fondo sovrano per il made in Italy e istituito la giornata del made in Italy, un’idea proposta dal consiglio di amministrazione di di Altagamma, sotto suo suggerimento, e in brevissimo tempo è diventata realtà.
“Sono molto contento della sua istituzione, ora la cosa importante è come la si realizza. Non deve essere un giorno di festa, ma un giorno di dimostrazione di cos’è il made in Italy, un open day in cui tutti i territori italiani facciano vedere – in primo luogo agli italiani stessi e, poi, anche alle istituzioni di ogni Paese – cosa sappiamo fare nelle nostre aziende, quali straordinarie abilità hanno i nostri collaboratori. C’è una tale ricchezza di competenze in Italia che va mostrata al mondo. Non facciamoci portare via, per favore, anche il racconto del saper fare!”
Dopo la corsa ad acquisire marchi degli anni 2000, oggi c’è la corsa a comprare quelli che una volta erano i contoterzisti e a creare scuole interne alla maison perché ci sono sempre meno artigiani… Le conoscenze sulle quali si fonda la filiera del made in Italy si stanno disperdendo. I gruppi francesi, soprattutto, stanno aprendo fabbriche in Italia e in Francia.
“Noi, come Dolce&Gabbana, abbiamo sempre dato grande importanza all’industria e alla difesa dell’artigianalità e non ci siamo fatti cogliere impreparati. È vero, però, che prima lo raccontavamo meno, davamo più visibilità alla parte prodotto, alla comunicazione del marchio, anche se la forza della Dolce&Gabbana, fin dal primo giorno, è di essere nata sia come stile che come produzione al servizio del marchio. Delle quasi 3000 persone che abbiamo in Italia (5.500 quelle nel mondo) più di 1.000 sono impiegate in produzione e sviluppo. Una parte che è cresciuta gradualmente nel tempo e che oggi ci dà la sicurezza di poter far arrivare i prodotti nei negozi”.
Nessuna acquisizione in vista per voi? Ci sono rumors sul mercato.
“Abbiamo sempre privilegiato la costruzione diretta delle filiere produttive, ma qualcosa nel tempo abbiamo rilevato anche noi. Per esempio, in Toscana, nell’ultimo anno, abbiamo integrato un paio di piccoli laboratori”.
Si parla del vostro interesse per le calzature.
“Sì, calzatura e pelletteria sono due categorie in cui il gruppo continua a investire, a completamento della filiera produttiva interna, e quindi sui distretti tradizionali di riferimento – Veneto, Marche e Toscana. In passato, abbiamo lavorato a operazioni analoghe nel tessile e nel conciario anche se puntiamo sulla formazione interna delle risorse e sulla valorizzazione delle collaborazioni con le realtà artigiane”.
Due anni fa avete creato la Dolce&Gabbana Beauty e attivato una collaborazione con Intercos, di cui siete anche diventati azionisti al 2%. Risultati?
“Ottimi. Siamo davvero soddisfatti e ci confrontiamo continuamente per capire come far evolvere ulteriormente la nostra partnership industriale. Vogliamo investire in modo deciso sul segmento della bellezza, in particolare sull’asset fragranze”.
In che modo?
“Come ho detto, per cultura la Dolce&Gabbana ama avere la responsabilità verticale e diretta sulle categorie merceologiche dove lavora, per cui a tendere ci sarà – non oggi ma nel giro di qualche anno – una Dolce&Gabbana Beauty Industry. Che sia al 100% nostra o che sia una NewCo con altri partner, lavorerà come priorità al servizio della Dolce&Gabbana Beauty, in particolare sul segmento delle fragranze che, al momento, è il più importante: fatto 100 il business del beauty, il 60/70% sarà dato dalle fragranze. Ed è anche il settore nel quale ha senso creare uno sviluppo industriale, che significa capannoni, management e dipendenti propri. Make-up e skincare, gli altri due pillar del beauty, sono fatti da tantissimi componenti per i quali è meglio invece affidarsi a specialisti come Intercos, che sono il nostro partner principale anche se non esclusivo”.
Quanti milioni avete stanziato per questo investimento?
“Dal punto di vista finanziario parliamo di un investimento finanziario che abbraccia diversi livelli: capitale umano, sviluppo prodotto e comunicazione, supply chain e logistica. È un modello integrato dove gli investimenti fatti hanno un ritorno di medio – lungo periodo; è quindi difficile dare un numero puntuale di valore capitale iniziale investito. Nei primi 3 anni, stimiamo un investimento di circa 500 milioni di euro”.
Siete entrati anche nel Real Estate, annunciando tre progetti: Miami, Marbella come residenze private, Maldive come alberghiero.
“DG Casa ci ha permesso di entrare in contatto con i maggiori developer Real Estate. Questo nuovo segmento rappresenta una duplice opportunità: lavoreremo su flagship lifestyle del brand e su uno sviluppo commerciale che attiva tutte le categorie merceologiche che vestono la casa”.
L’obiettivo è fare sempre tutto da soli? Nel design, per esempio, avete una licenza.
“No, dipende dal settore. Oggi il gruppo ha due categorie merceologiche in licenza: l’occhiale e il furniture; ricordiamo che lavoriamo direttamente sul complemento d’arredo. Il mobile, come l’occhiale, ha logiche industriali, produttive e distributive per cui, per avere la massima gratificazione, è meglio affidarsi a degli specialisti”.
Ha detto che con la pandemia le aziende sono cambiate. Ma anche i clienti non sono più gli stessi…
“Non c’è dubbio. Oggi, più che mai, ci troviamo di fronte a due profili di consumatore molto precisi: da una parte il cliente loyal, con caratteristiche di consumo radicate, dall’altra il cliente giovane che è più volatile e incline al cambiamento. La tanto attenzionata generazione Zeta è una generazione che vuole scegliere, vuole essere responsabile delle proprie scelte. In quest’ottica, penso che assisteremo a un ritorno dei multimarca, che presentano un’offerta ampia, quindi più democratica, e permettono di sperimentare sia a livello di prodotto che di tipologia d’acquisto”.
Lei è appena rientrato da un viaggio in Giappone e Corea. Come ha trovato questi mercati?
“In entrambi i mercati, il beauty e la piccola pelletteria sono oggi le categorie merceologiche più importanti. Sulla Corea avevamo fatto per tempo degli investimenti e siamo ben posizionati, mentre in Giappone abbiamo intenzione di intervenire con nuovi investimenti”.
Come stanno andando gli Usa, hanno sostenuto i conti del 2021 ma poi hanno rallentato.
“Diciamo che il 2021 è stato l’anno dell’euforia, anche a causa dei bonus introdotti dal governo, mentre nel 2022 il mercato è tornato alla normalità. Recentemente sono stato a New York e ho constatato che, viste anche le dinamiche lavorative di smart working, di giorno la città è poco attiva mentre di sera vive nei club. Questo vuol dire che il comportamento dei consumatori sta cambiando e la distanza tra l’offerta e la domanda non ha più lo stesso schema.
Ci auguriamo che nella seconda metà del 2024 il traffico retail di New York viva un trend positivo; sappiamo che stanno arrivando nuovi investimenti visto anche lo spostamento verso la città dell’industria del Tech. Continua ad andare bene il sud della Florida, grazie all’impatto del Messico e del Sud America, ed è cresciuto molto il centro America – Texas, Houston, Dallas, Las Vegas. Stabile l’area a est verso Los Angeles e San Francisco.
Considerati questi cambiamenti, ho deciso di rivedere il modello di business delle Americhe e di non dividerlo più in 2 ma in 3 zone: Nord, Centro America con le Isole, e Sud America mettendo il Messico nel Centro America e il Brasile nel Sud America. Faremo cambiamenti a livello commerciale e organizzativo sul presidio dei mercati”.
Sono i giorni della moda uomo, Pitti e adesso Milano. Anche l’uomo sta cambiando…
“Il mercato dell’uomo è molto attivo e pieno di curiosità. Stiamo vivendo un grande ritorno al Sartoriale ed all’Eleganza e alla ricerca della qualità con dettagli dopo tanti anni di sportwear. Sicuramente per quanto riguarda le nuove generazioni invece lo sportwear con volumi e dettagli più moda rimane importante. Noi da sempre curiamo questi due mondi con attenzione e rispetto delle rispettive esigenze”